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Giornale di Taranto - CELEBRAZIONI/ Madonna del Tara, in tanti hanno compiuto il rituale bagno nel fiume, la sua leggenda nelle parole di Alessandro Leogrande
Martedì, 01 Settembre 2020 11:01

CELEBRAZIONI/ Madonna del Tara, in tanti hanno compiuto il rituale bagno nel fiume, la sua leggenda nelle parole di Alessandro Leogrande In evidenza

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Oggi si celebra la Madonna del Tara e in tanti hanno compiuto il rituale bagno nelle acque del fiume. Per l’occasione abbiamo deciso di proporvi questo brano dedicato al fiume dello scrittore tarantino prematuramente scomparso Alessandro Leogrande.

 

La leggenda del fiume Tara

di ALESSANDRO LEOGRANDE

  

A Taranto c'è un posto che non è città, non è campagna, non è industria. È un piccolo corso d'acqua che scorre ai piedi dell'Ilva: c'è chi fa il bagno, chi prende il fresco, chi crede nei miracoli.

Fino alla fine degli anni cinquanta del Novecento accanto al fiume sorgevano due stabilimenti balneari, Lido Venere e Pino solitario. Dalla città e dai paesi vicini si andava al Tara per immergersi nelle sue acque fredde, molto più fredde dell’acqua salata dello Jonio, e per cospargersi il corpo con i suoi fanghi. Si è sempre creduto che le acque e i fanghi avessero proprietà terapeutiche. Secondo un’altra leggenda, un giorno un proprietario terriero della zona aveva dato ordine a un contadino di uccidere un vecchio asino, che non era più buono a lavorare, gettandolo nelle acque del fiume. L’uomo gettò la bestia nelle acque fredde del fiume, ma un altro contadino, impietosito dallo sguardo dell’asino, lo tirò fuori, lo accarezzò e lo coprì di fango raccolto con le mani. L’asino ritrovò subito le forze che s’erano inaridite. Ringiovanì come nelle favole, e da allora gli uomini e le donne dei paesi a ridosso della cintura settentrionale della città hanno ritenuto che il fiume, le sue acque blu e i suoi fanghi avessero poteri miracolosi. La leggenda si è tramutata in credenza, e la credenza in rito. E il rito – come testimoniano le foto di questo libro – è sopravvissuto alla più radicale trasformazione sociale, economica, ecologica, fisica, urbanistica, culturale che città italiana abbia mai subito.

 

L’Italsider, poi Ilva, è stata costruita poco distante dal Tara; l’intera area intorno a cui sorge il fiume è stata profondamente segnata dal Moloch siderurgico. Le ciminiere e gli altiforni hanno ridisegnato il paesaggio, la città, la terra e il cielo. Eppure il Tara è ancora lì, e nelle sue acque si bagna ancora chi crede nelle proprietà miracolose delle acque. Uomini e donne che curano un’ernia o uno strappo muscolare o i dolori ossei o persino – come mi è capitato di sentire di recente – la sclerosi multipla. Vengono anche dalla Basilicata o dalla provincia di Bari, in estate si creano ingorghi di auto lungo le vie d’accesso al fiume. Il primo settembre di ogni anno una piccola comunità immersa nelle sue acque recita il rosario venerando la Madonna del Tara, una piccola statua della vergine messa su un piedistallo lungo la  riva.

 

Questa storia che affiora da un passato lontano ci dice almeno due cose. La prima è di carattere antropologico. Anche la più radicale trasformazione industriale (e tale è stata la creazione del siderurgico sulle rive dello Jonio, simbolo di progresso che avrebbe debellato ogni retaggio del passato, la cultura del vicolo e del mondo contadino e del Sud di ieri, prima di tramutarsi in disastro lavorativo e ambientale) non può annullare il bisogno di riti. Anche in una città in cui ogni legame con il passato che precede la fabbrica sembra essere stato reciso, esso ritorna come frammento. Ai margini dell’area industriale permane un brandello del suo rovesciamento: una leggenda che giunge dalle viscere del tempo produce ancora oggi comunità, e con essa un desiderio di alterità che tiene insieme una pratica semipagana con le ansie della quotidianità. Questo ci dicono, in fondo, i corpi accaldati e accalcati uno accanto all’altro che pregano la Madonna trovando refrigerio nelle acque di un fiumiciattolo. Anche in un’età post-moderna, tutto ciò sopravvive.

 

La seconda considerazione ha a che fare con il racconto di tutto ciò. Gli autori di questo volume si avvicinano a questa piccola comunità di uomini  e donne con rispetto e circospezione, curiosità e senso di prossimità, restituendo piccoli gesti, sguardi, momenti di attesa e di grazia. Ma soprattutto, raccontando il fiume Tara e il suo popolo, raccontano Taranto in un altro modo. E questo è un aspetto centrale da sottolineare, perché Taranto è uno di quei luoghi apparentemente sovraesposti e iper-raccontati. Eppure questa sovraesposizione mediatica e questo iper-racconto non coprono affatto tutta la realtà narrabile. Anzi, proprio perché riducono tutte le complesse vicende che attraversano una città alla sola questione dell’Ilva, al solo disastro ambientale, finiscono per non vedere Taranto per quella che è.

 

Taranto è fatta innanzitutto di viscere, dettagli, frammenti come quello del fiume Tara, che nell’iper-racconto generalmente si perdono. Nell’iper-racconto quasi sempre si smarrisce quella sorta di disperata vitalità che impregna la città.

 

Viceversa, solo il racconto dei margini e dei frammenti permette di aprire uno squarcio e di comprendere qualcosa. Comprendere come si intersecano tra loro cose vecchie e cose nuove, ansie di cambiamento e mutazione del territorio. Comprendere come anche negli anfratti di uno scenario post-atomico, che non è più città, né campagna, e neanche industria, può sopravvivere un’isola umana legata a un’antica leggenda.

Ultima modifica il Mercoledì, 02 Settembre 2020 16:47