di Luisa Campatelli
<Ha avuto coraggio Michele Riondino a mettere le mani su una realtà che nessuno vuole toccare>
Giovanni mercoledì non ha voluto perdere l anteprima di Palazzina Laf, al Savoia Cityplex di Taranto. Lavorava all Ilva Giovanni, ne è uscito a 49 anni. Era giovanissimo quando entrò nella più grande acciaieria d Europa e quel fabbricato scorticato e con le erbacce davanti non se lo dimentica.
<Io una volta li vidi quelli della Palazzina Laf, passando, ma non riuscivo a guardarli, stavano lì, seduti, con le mani in mano, dietro una scrivania vuota, spogliati di tutto, mi sentii male>.
L opera prima di Michele Riondino è un film che ti commuove e che ti fa incazzare. A Taranto, dove è ambientato, dove risiede la ferita, ancora di più. Perché ci fa vedere come siamo, con quale mostruosità abbiamo a che fare, a chi abbiamo dato l anima, scambiando una condanna per un regalo.
Erano 79, i confinati della Palazzina Laf, acronimo di laminatoio a freddo. Settantanove persone costrette a stare in un edificio in disuso a fare niente, ridotte a inutilità, invisibilità,silenzio Erano i lavoratori scomodi che non potendo essere licenziati e in nome di un fantomatico piano di ristrutturazione che ne mortificava professionalità e competente (vuoi lavorare? E allora vai in acciaieria) finivano al purgatorio, nel limbo, in un luogo dove l orologio segna sempre la stessa ora. Quello della Palazzina Laf fu il primo caso riconosciuto di mobbing di massa in Italia.
<Ciò che accadde fu talmente paradossale, incongruo - sottolinea Michele Riondino durante l incontro con il pubblico, insieme al critico cinematografico Massimo Causo- ma non tanto diverso da quello che accade ora, con la cassa integrazione e i lavoratori costretti anche loro a non fare niente, sospesi>. Accanto a Riondino anche Claudio Virtù memoria vivente e filo del racconto che il racconto ce l ha scritto sulla pelle.
L Ilva è ovunque, e ovunque si viene raggiunti dal suo respiro pesante, invasivo: parole, silenzi, colpi di tosse, attese, sguardi, vite che si intrecciano con quella della fabbrica che col suo suono incessante, i suoi ritmi martellanti scandisce ogni momento, cambiando ognuno nel profondo. La fabbrica, che divora tutto, anche la capacità di distinguere il bene dal male, la vittoria dalla sconfitta, in una dimensione grottesca tale da suscitare reazioni contrastanti che vanno dal riso all indignazione.
Michele Riondino è Caterino Lamanna operaio della cokeria dall ingenuità colpevole ma anche disarmante, che si stupisce delle carezze che riceve, e pagherà per la sua incoscienza e per l ignavia di cui è emblema.
<Caterino è un Fantozzi nero - dice il regista- la mia critica feroce alla città, quella che non reagisce, quella che ha ceduto la dignità per un illusorio posto in un paradiso che non esiste>.
Di fronte ha Giancarlo Basile, dirigente Ilva, interpretato da Elio Germano, un capetto che esercita il suo misero potere succhiando bastoncini di liquirizia.
<Basile - sottolinea il regista- è un Caterino che ce l ha fatta>.
Su sponde opposte, ma uguali, i due stringono una sinistra alleanza. Perché la verità si svela nei contrasti.
La Palazzina Laf sembra la trasposizione del manicomio di Qualcuno volò sul nido del cuculo, con rituali che si ripetono sempre uguali, figure spente che si aggirano nei corridoi domandandosi <ma io che ci faccio qui?>, in una realtà parallela, la realtà del reparto confino. C è anche Capo Brondem, (interpretato da Giordano Agrusta) l uomo con gli occhi a fessura che passa le giornate a guardare il vuoto o a dormire e poi, spiazzando tutti, rompe il silenzio. Palazzina Laf è un film di denuncia e impegno civile, un film politico.
<I politici continuavano a ripetermi di pensare a fare il
mio mestiere- sottolinea Riondino- ed è quello che ho fatto parlando di loro>.
Nei sette anni che sono serviti per preparare il film, Michele Riondino si è nutrito di testimonianze, di incontri, di letture, di riflessioni, la più preziosa è sicuramente quella lasciata dallo scrittore Alessandro Leogrande nelle sue pagine. C è anche un omaggio allo scrittore Cosimo Argentina. Una scena del film si ispira a Dall Inferno, il racconto dell ingresso in fabbrica, in una notte di pioggia, di Umè il ragazzo senza nome convocato per fare affiancamento al decapaggio. E allo spettatore che assiste alla sequenza arriva immediata la certezza che una cosa così sta accadendo davvero, che proprio in quel momento, da qualche parte della fabbrica c è un ragazzo innocente che vaga da un girone ad un altro e al quale nessuno dà una risposta.